ESEMPIO E SACRIFICIO DELLA DIVISIONE “PERUGIA” IN ALBANIA
NELL’EPILOGO STORICO DELL’AUTUNNO DEL 1943
Se oggi si ricorda l’immane sacrificio dei soldati italiani caduti, delle giovani vite spezzate dei cosiddetti ragazzi del ’99, non possiamo non rivolgere loro il nostro deferente e riconoscente pensiero; ad essi non dovrà mai mancare la nostra riconoscenza di Nazione ritrovata proprio in quella durissima esperienza di trincea, culminata nella vittoria del 4 novembre 1918 che pose finalmente fine per l’Italia al lungo e sanguinoso conflitto della Prima Guerra Mondiale.
Quel 4 novembre 1918 modellò profondamente il futuro delle nazioni europee e influenzò definitivamente il corso della Storia di tutto il ventesimo secolo.
Ben 8000 di quei giovani morirono proprio qui in Albania. E se solo per un attimo, andiamo a considerare anche gli eventi della Seconda Guerra Mondiale, l’ammontare esatto dei soldati italiani caduti in Albania risulta pari a circa 28.000 unità; anche a causa del tragico epilogo storico accaduto nell’autunno del 1943 dopo l’Armistizio con gli anglo-americani.
In particolare, va ricordato che nel settembre 1943, l’Albania era presidiata dalla IX Armata dell’allora denominato Regio Esercito italiano, suddivisa in due Corpi d’Armata e sei Divisioni (Perugia, Parma, Brennero, Firenze, Arezzo, Puglie). L’Armistizio dell’8 settembre, come è noto, provocò una grave crisi di comando e controllo, al punto che il Comando Supremo diramò ordini non chiari circa il comportamento da tenere dalle truppe italiane, in particolare verso i Tedeschi.
A seguito di aspri scontri, l’11 settembre, i Tedeschi entrarono a Tirana dove arrestarono il Comandante della IX Armata, Gen. ROSI, e gli estorsero l’ordine di consegnare le armi in cambio della promessa, ritenuta non credibile, di rimpatrio delle Divisioni sotto il suo comando: tale ordine comportò il rifiuto da parte dei Comandanti delle Divisioni, per manifesta contrarietà all’onore militare, e l’inizio dello sbando delle Unità italiane. Ogni comandante di Divisione si comportò sulla base della situazione locale: alcuni cercarono di raggiungere la costa per l’imbarco alla volta dell’Italia, altri si indirizzarono verso le montagne dell’interno per sfuggire alla cattura e unirsi poi al movimento di liberazione albanese. Al momento dell’armistizio la Divisione “Perugia” presidiava Gjirokastër, Delvinë, Jorgucat, Tepelenë, Këlcyrë e Përmet.
Priva di collegamenti con i comandi superiori, la “Perugia” dovette gestire in proprio la crisi seguita all’armistizio dell’8 settembre; il 21 settembre giunse a Saranda, dove si schierò a difesa del porto dando protezione a migliaia di sbandati della Divisione “Parma”.
Il 26 settembre, i tedeschi cercarono di sbarcare a Saranda, ma lo sbarco fu respinto e la “Perugia” fece anche 15 prigionieri. I giorni seguenti furono densi di incertezze. Quando finalmente arrivò la notizia che le navi italiane sarebbero arrivate a Porto Palermo, il Comandante ordinò – vista anche l’incombente minaccia tedesca – lo spostamento a nord. Durante il movimento verso Porto Palermo, nella convinzione che le navi li avrebbero imbarcati, fu emanato l’ordine di consegnare le armi ai partigiani albanesi. Il 28 settembre, i fanti della “Perugia” arrivarono a Porto Palermo, ma non trovarono le navi, che gli Alleati intanto non avevano fatto partire dai porti dell’Italia liberata.
Nel mentre, i tedeschi avevano dato l’avvio da sud e da nord dell’Albania ad un’operazione di vera e propria caccia all’uomo. I reparti della “Perugia”, ormai senza armi, si divisero in gruppi e con l’aiuto della popolazione albanese cercarono rifugio sulle colline del retroterra. I rastrellamenti tedeschi però non dettero scampo e, via via, quasi tutti gli Italiani furono fatti prigionieri.
Il trattamento subito per mano dei tedeschi in Albania fu simile a quello riservato ai militari italiani nelle isole greche (il ricordo qui non può non soffermarsi sul sacrificio dell’intera Divisione “Acqui” a Cefalonia, più di 9000 uomini trucidati), la morte per tutti gli Ufficiali e l’avvio ai campi di internamento per tutti gli altri.
I militari italiani della Divisione “Perugia” erano accusati di aver respinto con le armi il tentativo di sbarco tedesco a Saranda, di aver agevolato l’imbarco di alcuni contingenti diretti verso la Puglia, occupata dagli anglo-americani, e di aver collaborato con i partigiani albanesi.
Il tragico epilogo avvenne tra il 4 e il 7 ottobre in due località diverse. Il 4 ottobre furono trucidati a Baia Limion il Gen. CHIMINELLO, Comandante della Divisione, e il suo Capo di Stato Maggiore; il giorno successivo, si legge nel diario del colonnello Giuseppe Adami, vice-comandante della Divisione, nello stesso luogo “gli Ufficiali, separati dalla truppa, sono imbarcati a otto alla volta su battelli, trasportati al largo e gettati in mare, non si sa se previa fucilazione”, mentre “i soldati dalla spiaggia assistono impotenti a questo immane massacro”. Secondo alcuni, tale sorte toccò a 120 Ufficiali, secondo altri a 150. Altri 32 Ufficiali furono catturati e fucilati in località Kuç, non lontano da Saranda, il 7 ottobre.
Di questa vicenda si ricordano alcune figure di straordinario eroismo, alle quali fu concessa la Medaglia d’Oro al V.M., tra cui il Col. Gustavo LANZA, Comandante del 129° reggimento, che si oppose all’intimazione di cedere le armi e, catturato dopo una strenua lotta, tentò, assumendosi ogni responsabilità, di sottrarre alla rappresaglia i suoi uomini; e il Ten. Col. Emilio CIRINO che, dopo aver guidato il rientro in Puglia di alcuni reparti, volle assolutamente tornare in Albania per non abbandonare la sua Unità. Le altre vittime dell’eccidio furono decorate con la Medaglia d’Argento al V.M.
Circa 170 militari superstiti della “Perugia” si unirono poi ai Battaglioni “Gramsci” e “Matteotti”, formati dai resti di altre unità presenti in Albania, partecipando a numerose operazioni contro i Tedeschi; contribuirono alla conquista della Capitale e poterono sfilare, da liberatori, a Tirana il 28 novembre 1944.